Il Polo industriale di San Martino di Trecate

1950: posa della prima pietra

Comincia, avvolta in un alone di riserbo e di discrezione l'avventura della Società per Azioni Raffineria Padana Oli Minerali, meglio conosciuta come SARPOM, prima raffineria costruita in Italia nell'entroterra e non in riva al mare dove è molto più naturale per le petroliere attraccare e scaricare il greggio. Eppure, senza che il vicinato d Trecate e Cerano se ne rendesse pienamente conto, con la posa della prima pietra avvenuta nel 1950 era iniziata l'era dello sviluppo industriale. l Media, invece, si erano accorti dell'importanza dell'evento: iniziano, così, le trasmissioni radiofoniche sull'argomento emesse dal "Gazzettino Padano", mentre neonate indiscrezioni trapelano dalle pagine del "Corriere della Sera". Ovviamente anche la stampa locale non se ne sta con le rotative in mano. Sul "Corriere di Novara", il 7 febbraio 1951, compare un articolo intitolato "l sette misteri petroliferi di Trecate, città segreta della Fiat-SARPOM di Torino", nel quale viene fatto riferimento ad un comunicato Ansa circa l'investimento di 20 milioni di dollari e si congettura sui probabili riflessi sull'economia della zona. Tutto però, sottolineava il cronista, era soffuso da un'aura di mistero, tant'è che gli era stato persino negato l'accesso al recinto dove fervevano i lavori. "Il carattere eccezionale di tutta l'impresa - commentava il giornalista - è adunque dato dall'estremo riserbo con cui se ne circonda lo sviluppo. Un riserbo che appena sarebbe giustificato se si trattasse di impianti atomici!". Permeato da una generale curiosità, dunque, I'avvento della Società SARPOM, costituita a Torino il 5 novembre del 1947, dal gemellaggio tra la nota casa automobilistica italiana Fiat e la Compagnia americana California Texas Oil Company Ltd. di New York - Caltex (a quel tempo la legge italiana non consentiva di costituire Società con capitale straniero superiore al 50%). E non è certo un caso che la Raffineria sia stata concepita a Torino, città già allora capitale dell'industria automobilistica italiana. Per "piantare le radici" ci si era orientati sulla Riserva di Caccia S. Martino, posta sulla sponda piemontese del Ticino, e denominata dalla gente del luogo "Bruiron" (brughiera), dove molte personalità del regime fascista di Casa Reale avevano spesso impallinato lepri e fagiani e dove giovani e meno giovani delle zone limitrofe andavano... a fare la spesa. Nel senso che quei luoghi ameni erano carichi di alberi da frutto, di funghi, di selvaggina (era tacitamente concesso cacciare... di frodo) mentre l'acqua, in particolare il Canale Langosco, letteralmente brulicava di pesci. Nell'epoca dell'asciutta venivano piazzati sul letto del fiume degli strati di paglia dove restavano impigliati splendidi esemplari di trote e cavedani. All'alba arrivavano a raccoglierli le donne, con la medesima carriola che, il lunedì avrebbe trasportato giù al greto i panni da lavare. Inoltre, nella stessa riserva dove si erano alternati piaceri dell'arte venatoria e spensierati incontri conviviali, aveva stazionato anche la Todt, organizzazione tedesca al seguito della Wehrmacht, che realizzava opere genio militare. Ed infatti con il legno degli aviti alberi furono costruiti ben due ponti per collegare le sponde del fiume. Il vasto appezzamento apparteneva al commendator Luigi Ronzoni, i cui eredi lo vendettero alla SARPOM per 25 milioni di lire. La scelta della zona non era stata certo affidata al caso, ma frutto di ponderate riflessioni di tipo pratico (la superficie di 100 ettari era estesa a giusta misura per l'installazione degli impianti), logistico (si trovava strategicamente in posizione centrale rispetto al triangolo industriale Milano-Torino-Genova) ed ecologico (i venti spiravano verso la valle del Ticino, più raramente verso i centri abitati). Detto fatto, ecco calare in mezzo ai frastornati abitanti limitrofi, appena sgusciati dalle difficoltà del dopoguerra, un vero e proprio esercito di circa 1250 persone, rivolte all'esecuzione di rilievi e di progettazioni, che invasero pacificamente Trecate, occupando alloggi e baracche adattate allo scopo. In particolare furono gli abitanti di S. Martino a restare più disorientati dì tutti. "A quel tempo, nella frazione che contava circa 300 anime, - ricorda il sanmartinese doc Renato Carelli - i posti lavorativi erano pochissimi e a tradizione familiare. C' erano gli agricoltori (si solcava la terra ancora con l'aratro e le risaie erano pestate dagli zoccoli di mucche e di cavalli), i ferrovieri che andavano a Milano, le donne impiegate nei cotonifici, un ciabattino ed un parrucchiere. Il panettiere non c'era perchè, essendo il forno in comune, ogni venerdì una famiglia, a rotazione, aveva l'incarico di fare il pane. E si spandeva per tutto il borgo un profumo che ai bambini faceva venire l'acquolina in bocca perchè già pregustavano la "crescenza", torta fatta con uva, mele e pere. Ecco, erano forse quei profumi che si alternavano nelle stagioni, e quei colori come gli alberi in mutazione in autunno o carichi di mele rosse come il fuoco, che per gli abitanti di S. Martino l' avvento della Raffineria metteva più a rischio. La gente, che aveva visto abbattere pianta dopo pianta l'intera Riserva di Caccia dinnanzi al crescere di un ben diverso "bosco" di cemento e d'acciaio, si chiedeva con ansia se qualcosa sarebbe rimasto come prima. Il luogo dove si raccoglievano liberamente chiodini e castagne era scomparso, anzi, era stato invaso da personaggi che masticavano una lingua incomprensibile: cosa sarebbe successo? E non si sapeva neppure, inizialmente, che quel gigante in costruzione avrebbe potuto essere una buona speranza di lavoro". Ricorda Gianfranco Ariatta (che a quel tempo lavorava per un'impresa dì supporto ai tecnici statunitensi) l'impatto emozionale davanti a bulldozer e caterpillar, intenti ad abbattere alberi come birilli e a spianare d'ogni grinza i terreni come ferri a vapore. "Tutto era fonte di stupore, non solo i grandi mezzi e le nuove tecnologie, ma soprattutto l'atteggiamento degli americani nei confronti del lavoro manuale. Tanto per fare un esempio, nel nostro settore di edilizia e di carpenteria metallica, si era abituati a "fare andar l'olio di gomito": per loro, avvezzi a sfruttare le macchine, sudare e sfacchinare era un inutile spreco di energie... E ci guardavano come fossimo de Terzo Mondo. Per tacere della loro economia di esercizio che prevedeva un grandissimo impiego di denaro, all'insegna della mai abbastanza perseguita sicurezza. E pensare che da noi, all'epoca, i "magutt", i ragazzini che portavano l'acqua, avevano il compito preciso di raddrizzare i vecchi chiodi per poterli recuperare: nulla andava sprecato, neppure i mattoni usati! Davanti a tanto sfoggio di mezzi restammo a bocca aperta, ma abbiamo eseguito le direttive. E alla luce dei fatti... avevano ragione! La comunicazione poi, non era proprio delle più facili, visto che sui progetti, firmati "Badger & Son", le misure andavano a "pollici" (per semplificare le cose avevamo dovuto comprare dei metri doppi con scala inglese da un lato e decimale dall'altro). C'era anche il problema, non secondario, della lingua, perchè molti di noi masticavano poco l'italiano... figurarsi l'americano! Fortunatamente eravamo aiutati da qualche ex emigrante che si prestava di buon grado a fare da interprete e soprattutto dal mitico, onnipresente, Mr. Stan, ingegnere chimico soprannominato Coppi per l'imponenza del suo naso, che aveva imparato la nostra lingua da un'avola di origine italiana.

L'oleodotto: "autostrada del petrolio". Dal Mare a San Martino

Merita un cenno a parte la costruzione dell'oleodotto, partita in contemporanea con i lavori della Raffineria, che nei ricordi dei curiosi, intenti a non perdersi un istante degli avvenimenti, aveva il sapore di magia. l macchinari si insinuavano sottoterra come i draghi delle fiabe, ingoiando sassi, zolle, pianticelle e radici quasi fossero bruscolinl. In effetti, il favoleggiato tubo partiva dal lontanissimo litorale Savonese, attraversava 5 province, superava 23 incroci ferroviari, sotto passava 22 fiumi e 164 canali, strisciava tra le pieghe di strade, vicinali, proprietà private, entrava ed usciva dalla pancia degli Appennini e si raccordava infine, come un ideale cordone ombelicale, con la rassicurante S. Martino di Trecate. Agli occhi dei profani il tutto appariva come un'opera titanica e tecnologica fatta da marziani piuttosto che da semplici terrestri. In effetti tutto il percorso fu guadagnato spanna dopo spanna: non fu semplice, in particolare, vincere la diffidenza ancestrale degli agricoltori che dovevano concedere le cosiddette "servitù" (retribuite) sul loro terreno. La cosa era però comprensibile, anche perchè tutto passava attraverso il notaio, personaggio ancora recinto da un alone di inquietante ufficialità. Per tacere del divario tra due mondi tanto diversi. Da un lato gli uomini della terra, che vivevano secondo il ritmo delle stagioni, che contavano sul lavoro delle proprie mani, che si muovevano in un intreccio di gesti tramandati da generazioni, che operavano nel microcosmo dell'aia, della casa, della stalla, dei campi. Dall'altra parte l'industria, che si inseriva nel loro territorio con sconosciuti quanto indispensabili interventi tecnologici e che li chiamava in causa come custodi di attrezzature potenzialmente pericolose. Ma infine, superate le iniziali titubanze, questa gente, spinta dalla tradizionale ospitalità, vinti indugi e perplessità, apriva la sala buona di casa ed offriva il caffé con il servizio della festa. Come aveva anticipato il "Corriere della Sera", si trattava del primo tratto costruito in Italia di quelle "pipelines" che per 300 mila chilometri stavano percorrendo il globo. La "via del petrolio" della SARPOM, affondando nel mare di Legino, località ubicata tra Vado e Savona, usufruiva di 3 pompe della portata di 43 mila litri ciascuna, affinché l' "oro nero" o "il fiammeggiante", come lo chiamavano in Mesopotamia, potesse superare agevolmente persino gli ostici 500 metri di dislivello del Col di Cadibona. Il varo della tubazione era stato puntualmente recensito dai Media: il "Corriere di Novara", nel luglio 1952, ne aveva annotato le caratteristiche tecniche. Era stato segnalato ai lettori che il tratto sottomarino era in acciaio, con diametro medio di 355,6 mm, e di insinuava in mare per ben 953 m. Il perchè era semplice: l'espansione al largo della tubazione era indispensabile per consentire lo scarico delle navi cisterna di maggior tonnellaggio, che non avrebbero potuto attraccare, data l'insufficienza del fondale al pontile Petrolea, alla cui base sfociava l'oleodotto. La tubazione marina era dotata di un triplice rivestimento: il primo costituito da una composizione segreta, il secondo da una composizione di vetroflex, bitume e polvere d' ardesia, il terzo da liste di legno. Il tutto adagiato sul fondo alla profondità massima di 14-16 metri. Insomma, totani e acciughe potevano dormire sonni tranquilli! L'oleodotto a terra, invece, prevedeva una tubatura di 219 mm di diametro (8 pollici), con uno sviluppo complessivo di circa 150 Km, protetta contro gli agenti corrosivi da un rivestimento bituminoso, rinforzato da due strati di fasciatura di tessuto lana-vetro. Ovviamente il lungo serpentone sotterraneo (capace di sostituire un'ininterrotta giornaliera colonna di autocisterne lunga 15/20chilometri, incompatibile sia con il sistema infrastrutturale che con quello ambientale) non era abbandonato al suo destino: per il servizio di sorveglianza e manutenzione erano previste, alle stazioni terminali, due apparati radiotrasmittenti ad onde corte, collegate con un ponte radio installato sul monte Beigua, 1400 metri sopra il livello del mare. Nel settembre del medesimo anno, il giornalista del "Corriere di Novara", Stucchi, novello San Tommaso, volle seguire in macchina e a piedi, i tratti più interessanti dell'intero oleodotto: su una mappa ideale si susseguivano la vallata di Quazzola, le pendici del Colle di Cadibona, le colline Montechiaro, la vallata dell'Erro, Alessandria, la Valle Lomellina, Mortara, per giungere, finalmente, in diretta, in piena Raffineria. I lavori richiesero il superamento di grandi difficoltà tecniche ed in alcuni tratti si rese indispensabile il trasporto a spalla d'uomo di segmenti di tubo lunghi 12 metri e pesanti circa mezza tonnellata. Il costo della messa in opera si aggirò sui 3 miliardi di lire e comportò l'impiego di ben 1500 operai. Successivamente, per adeguarsi ai progetti di espansione della Raffineria, nel 1964 fu costruito un nuovo oleodotto per il trasporto del greggio necessario all'aumentata capacità di lavorazione: esso aveva un diametro di 510 mm (20 pollici) ed allacciava, con un percorso di 145 chilometri, il deposito di Savona con i serbatoi di Trecate. L' anno successivo, completata la costruzione del nuovo (ed attuale) deposito costiero di Quiliano (Savona), l'oleodotto da 20 pollici fu collegato ad esso per il trasferimento in Raffineria della materia prima. La SARPOM fu inoltre allacciata anche al nuovo deposito di Arluno, vicino a Milano, costruito per lo stoccaggio di prodotti finiti, in modo da rendere più agile, rapida ed economica la consegna dei prodotti stessi nelle zone di consumo.

Il deposito costiero: primo "casello" dell'autostrada del petrolio

Se abbiamo definito l'oleodotto "autostrada del petrolio", un'autostrada particolare, invisibile, diciamo "underground", il deposito costiero, nel quale scaricano il greggio le petroliere, ne è certamente il "casello" di accesso, una sorta di capolinea. Come già accennato nel paragrafo precedente, la cinquantenaria storia dei depositi a mare allacciati alla SARPOM può essere divisa in due parti: dapprima il deposito di Savona, poi, dal 1965, il deposito nella vicina Quiliano, ridente borgo nell'immediato entroterra tra Savona e Vado, collegato al mare dall'omonimo torrente. Pionieristico punto di partenza fu il deposito Petrolea, che faceva parte del Gruppo Fiat con soci russi e rumeni: costruito ad inizio anni '30, accoglieva gli oli minerali provenienti dall'area dell'ex Unione Sovietica. Per la ricezione dei prodotti dalle navi, disponeva del pontile più lungo della rada, attualmente ancora in esercizio da parte della società oggi proprietaria, la Erg. Durante la Seconda Guerra Mondiale il deposito fu bombardato dagli alleati e parzialmente distrutto, ma venne immediatamente ricostruito per l'importanza che aveva nell'appena avviata ripresa post-bellica. Fu nel 1948 che la Petrolea (Fiat) e l'americana Caltex unirono i loro interessi e diedero vita alla Petrolcaltex, in contemporanea con la costituzione della consorella SARPOM. Nacque così un modernissimo ed integrato complesso industriale, costituito appunto dal terminai marittimo Petrolcaltex di Savona, dall'oleodotto di collegamento e dalla Raffineria SARPOM di S. Martino: di certo uno degli elementi determinanti per il boom economico del Nord Ovest italiano e tuttora importante arteria del sistema energetico nazionale. Tra le curiosità relative alla nascita della Società Petrolcaltex, particolare quella riferitaci da Sergio Carazzone, che divenne Direttore del deposito, e che ricorda come ci fu persino uno studio socio-economico per accertare se Savona, città tradizionalmente di sinistra, fosse adatta ad ospitare installazioni in parte americane. L' esito fu ovviamente positivo. Il suddetto sistema consentiva di trasportare in Raffineria circa 900mila tonnellate/anno di petrolio, molte per gli anni '50, quando gli italiani si scaldavano ancora con stufe a legna o carbone, ma troppo poche per le richieste di una sistema industriale sempre più assetato di energia e per fronteggiare la motorizzazione di massa: gli abitanti del Bel Paese avevano infatti deciso di scendere da Vespe e Lambrette e salire su più confortevoli 500, 600, 1100, Aurelia, Giulietta, Giulia ecc. Il grande salto di qualità, e di quantità, giunse alla metà degli anni Sessanta, allorquando la capacità di lavorazione della Raffineria fu incrementata rendendo necessaria una radicale trasformazione del sistema logistico di approvvigionamento. Sono gli anni della costruzione sia del nuovo oleodotto che del nuovo deposito SARPOM di Quiliano, con capacità iniziale di 210mila metri cubi, negli anni diventati 380mila, allocabili in 7 serbatoi. Dal deposito verso il mare, la tubazione, rivestita di uno strato di calcestruzzo spesso 80 mm ed armato con rete metallica, era stata interrata per 2500 metri sotto il letto del torrente Quiliano. Si spingeva poi in mare per altri 1000 metri oltre la foce per raggiungere fondali di 18 m, agibili a petroliere di oltre 100mila tonnellate di portata. Con l' avvio a regime di questo primo campo boe ad alto fondale, si registrarono continui record di greggio in arrivo, con la punta delle quasi 108mila tonnellate sbarcate in sole 20 ore dalla Imperial Ottawa nel luglio 1970. Record che avrebbe avuto vita breve: l'affermazione del gigantismo navale, dovuto alla necessità di circumnavigare l'Africa a seguito della crisi medio-orientale del 1973 e della chiusura del canale di Suez, si portò dietro la realizzazione del progetto di installazione di un nuovo campo boe in grado di ricevere le super-petroliere. E' perciò in quel periodo che il campo boe assume l' attuale configurazione, con la condotta sottomarina portata in acque profonde a circa 1350 metri dalla foce del Quiliano. In quell'area, a 40 metri di profondità, è stata ancorata la piattaforma metallica di 42 metri quadrati, dove sono attestate le tubazioni da 32 e 36 pollici che uniscono il terminale a mare al deposito costiero. All'interno delle 7 boe d'ormeggio, possono essere accolte supercisterne fino a 316mila tonnellate di portata: il 3 settembre 1973 le nuove attrezzature vennero "collaudate" a fondo dalla supertanker Jamunda, gigante di 338 metri di lunghezza, che scaricò oltre 251mila tonnellate di greggio, al bel ritmo di 11mila tonnellate all'ora. Nei suoi poco più che trentacinque anni di vita, il deposito costiero di Quiliano non ha certo subito bombardamenti come capitò al deposito di Savova; tuttavia, a turbarne il delicato equilibrio operativo, ci hanno provato negli anni alcuni "extra" che hanno infuso massicce dosi di adrenalina nelle vene dei responsabili alla sicurezza. Due gli esempi più eclatanti e ben impressi nella memoria dei protagonisti: l'incendio che devastò l'entroterra savonese e le colline di Quiliano nel gennaio 1989 arrivando a minacciare seriamente il deposito (la SARPOM offrì tra l'altro il proprio prezioso contributo con l'intervento di un mezzo antincendio ed una decina di uomini), e la furiosa piena del torrente Quiliano nel settembre del 1992, quando gli operatori del deposito si trovarono con l'acqua ben sopra le ginocchia. Ma neppure in questi critici frangenti i ritmi dell'oleodotto persero colpi: certe "autostrade" non possono permettersi di chiudere i loro "caselli".

11/11/1952, ore 11 in punto: si parte

Ma torniamo ora a parlar della Raffineria. Col procedere dell'attività per la costruzione della stessa e dell'Oleodotto, il sogno lavorativo vagheggiato da molti stava diventando realtà: alle maestranze locali chiamate all'appello sembrò di toccare il cielo con un dito. "Tutti - ricordano quelli che partecipavano alla grande corsa - facevano a gara per ingraziarsi gli addetti alle assunzioni perchè mettessero una buona parola". Anche nei paesi adiacenti, dove era man- tenuta la configurazione agricola, si cominciò a respirare aria industriale, mentre un rinnovato giro di denaro consentiva l'attuazione di iniziative commerciali ed artigianali. La circolazione delle prime autobotti, tanto per fare un esempio, aveva creato la figura dei "padroncini", alcuni dei quali sarebbero diventati poi importanti imprenditori nel commercio dei prodotti petroliferi. Tra le novità che colpiscono la fantasia degli abitanti di Cerano e Trecate spiccano le quattro villette (che appaiono lussuose) costruite per ospitare le famiglie dei dirigenti. Rivoluzionaria la creazione della Sala da pranzo della Raffineria, usata con mensa self-service: erano tempi in cui i dipendenti si portavano da casa il pentolino con la minestra! Apprezzatissima anche la successiva realizzazione dell'Infermeria e dell'Ambulatorio Sanitario, con medico di fabbrica per le visite ed il controllo periodico del personale. Tra i primissimi assunti di quel periodo iniziale spicca il sanmartinese Renato Carelli;, chiamato al settore della manutenzione un mese prima dell'inaugurazione ufficiale degli impianti. In quei tempi, nei quali il termine specializzazione era ancora poco diffuso, il Carelli contava già una notevole esperienza nel settore meccanico, anche perchè dall'età di 14 anni, per necessità e per passione, prendendo nell'ordine bicicletta, treno, "cavallo di S. Francesco" (traduzione: a piedi), andava ogni giorno a lavorare a Milano in un'officina meccanica di precisione. Quando poi passa a prestar servizio in un'autorimessa locale, il destino ci mette la coda, nei panni del cavalier Mazzei, capo della manutenzione della nascente SARPOM, che gli affida la rimessa a punto di parecchi automezzi ("il terreno era molto accidentato e le frizioni bruciavano come zolfanelli!"). Proprio nel corso di una riparazione in loco, il Carelli viene apostrofato con la domanda di rito: "Cosa ci fai qui?" La risposta è buttata lì: "Cerco lavoro". Detto, fatto, caricato su una macchina per la classica visita in ospedale e poi, dopo 3 giorni e senza tante storie, è assunto come meccanico addetto alla manutenzione, in compagnia di rare maestranze provenienti dalla Fiat di Cameri e "smistate" in Raffineria. "Ovviamente -ricorda Carelli - i giorni che precedettero I'avviamento erano all'insegna di un'apprensione che si tagliava con il coltello, anche perchè noi non è che sapessimo tutto di tutto". Comunque l' 11-11-1952 , sotto la protezione di San Martino santo del giorno, alle ore 11, la Raffineria, capitanata da J.M. Detweiler, inizia scaramanticamente il ciclo produttivo partendo dal Serbatoio 111, impegnando 360 persone tra operai ed impiegati, per la lavorazione di circa 1 milione di tonnellate annue di greggio. Momenti indimenticabili! Era come dar vita e respiro ad un essere misterioso, un gigante addormentato, che nel giro di poco tempo si sarebbe svegliato: sarebbe stato mansueto e affidabile o si sarebbe ribellato alla presunzione umana soffiando fumi e fiamme dalle invisibili narici? Tutto iniziò con l'accensione dei forni, dai quali uscivano folate di vapore denso, mentre si poteva quasi avvertire lo slancio dei prodotti che iniziavano a circolare come sangue vivo in un labirinto di vene e di arterie d'acciaio. Gli operatori erano al culmine dell'attività, in un misto di efficienza, di inquietudine e di frenesia, sostenuti da un impeccabile gruppo di tecnici inglesi che, in perfetto stile anglosassone, li trattavano con un po' di distacco. Erano i turni di notte i più faticosi, perchè allora non c'erano ancora buchi nell'ozono e gli inverni erano freddi per davvero: eppure tutti, battendo i denti, se ne stavano piantati come soldatini vicino alle turbine, pronti ad affrontare eventuali emergenze. "E - prosegue Renato Carelli - un 'emergenza ci fu, proprio qualche giorno dopo l'avviamento, anzi, fu uno dei fatti più gravi seppur, per fortuna, senza vittime o feriti: l'incendio all'impianto del PS-1. Per un errore umano si alzò, d'improvviso, una colonna di fumo nero come la pece, che ci colse impreparati. Eravamo infatti inesperti del sistema antincendio e non sapevamo collegare le manichette per l'acqua e lo schiumogeno. Quando dal fondo della colonna uscì un getto di prodotto pesante e divampò l'incendio noi non sapevamo cosa fare. A quel punto comparve un tecnico inglese: si infilò in una tuta protettiva, salì, con olimpica calma, chiuse una valvola e piano piano tutto si spense. La cosa ci fece però prendere coscienza che non stavamo lavorando in una serra ma, come amavo ripetere ai miei compagni, in una polveriera dove non si sa dove sia la polvere. E si doveva fare attenzione, molta attenzione". Così l'atmosfera si arricchisce della giusta consapevolezza e collaborazione, anche perchè si fa sempre più fitta la schiera dei giovani operai assunti, supportati dal costante aiuto del personale statunitense: "ci sono state grandi persone che hanno saputo, con molta pazienza e professionalità, spiegarci tutto". Ogni volta l'esperienza porta a compiere passi avanti nel settore della sicurezza: l'uso dei caschi, ad esempio, viene reso obbligatorio dopo che una piccola flangia ("molto piccola, per fortuna") scivola dalle mani di un addetto agli strumenti nella centrale termica e finisce sulla testa di un americano che passava di sotto, senza gravi conseguenze. Particolarissimo il momento dello "shutdown", ovvero la fermata per la revisione degli impianti, che avveniva ciclicamente: dopo 6 mesi dall'avviamento, infatti, ebbe luogo il primo controllo generale. Si bloccava tutto e, dopo la fase di degasaggio, gli uomini entravano nelle colonne per le opportune verifiche: lavoravano manualmente, con guanti e tute normali ed uscivano all'esterno neri come spazzacamini. Le installazioni della neonata Raffineria erano costituite da un impianto per la distillazione atmosferica, un reformer termico per innalzare il numero di ottano delle benzine, un impianto di "addolcimento" delle benzine che allora rappresentava la tecnologia più avanzata per ottenere benzine e carburanti avio "desolforati", considerabili quindi già all'epoca "ecologici". Lo stabilimento fu subito dotato anche di un raccordo ferroviario, tuttora in servizio, con la vicina stazione di Trecate. Nel 1953 vennero lavorate in tutto 543.834tonnellate di greggio. Nel 1956 si completò la prima espansione della capacità di lavorazione, con un incremento del 30%, e si misero in funzioni gli impianti di distillazione sottovuoto, cracking e polimerizzazione. Nel corso dell'iniziale organizzazione della Raffineria, mantenne i rapporti con gli Enti locali l'ing. Perucca, con il compito di smussare gli iniziali attriti che si crearono quando, denunciando inadeguatezze di base, la SARPOM non rispettò l'impegno di assumere il 40% del personale scelto tra i locali. Ma l'istituzione di corsi serali per analisti chimici e meccanici organizzati dalle Acli e l'ingresso della Esso come azionista di maggioranza consentirono di rientrare nei giusti binari. L'avvento della Esso segnò un momento molto importante per l'evoluzione della Raffineria. Ricorda Carelli le pesanti ed ineluttabili selezioni interne e l'organizzazione dei corsi di specializzazione diversificati ai quali molte maestranze dovevano sottoporsi, con lo scopo di allargare l'area delle conoscenze. "A quel tempo la presi quasi come un'offesa personale: cosa c'entrava il mio lavoro con altri settori? Eppure oggi, alla luce di una moderna professionalità, mi rendo conto che quella filosofia aziendale era in anticipo sui tempi. Allora iniziarono anche le trasferte e gli assegni di merito: ricordo le 15 lire assegnatemi per il buon lavoro nella stazione intermedia dell'oleodotto a Castelletto Bormida: sembra poco ma, agli inizi degli anni Sessanta, non erano certo bruscolini!".

1961: inizia il grande sviluppo

Gli interessi della Fiat in SARPOM durano circa un decennio: all'inizio degli anni Sessanta, decaduti nel frattempo i divieti sul capitale estero, la Casa Torinese cede la propria partecipazione alla Caltex e la Esso (Standard Oil Company, multinazionale americana fondata da Rockfeller nel 1870) acquisisce da quest'ultima il 65% delle azioni SARPOM, divenendone, allora e tutt'oggi, l'azionista di maggioranza. Con l'avvento della Esso, nel 1961 vengono prese importanti decisioni per il futuro sviluppo della Raffineria. Si arriva così nel 1964 ad un importante ampliamento che permette di raffinare 5,5 milioni di tonnellate annue di greggio: non era mancata tuttavia qualche difficoltà per l'acquisizione delle nuove aree destinate alla costruzione di altri serbatoi ed al nuovo parco per la dislocazione delle autocisterne, che si andavano facendo sempre più fitte. Dopo qualche Incomprensione con i proprietari terrieri e le nascenti forze ambientaliste, senza manifestazioni di piazza, viene raggiunto l'accordo: a quel tempo era molto sentita la necessità di creare posti di lavoro... e gli organi sensori umani erano meno sensibili forse di oggi! I lavori si esauriscono in un solo anno e mezzo con grande impegno di materiali e personale. In quel frangente arrivano moltissimi tecnici statunitensi della Esso che, lavorando in stretta collaborazione con i locali, stringono autentiche amicizie che proseguono nel tempo, a lavori conclusi. Visto che a quell'epoca si girava ancora in bici ed il sogno della vita era poter andare al mare a bordo di una 600, si può affermare che questo legame umano sia stato il primo esempio di "globalizzazione" intesa nel vero senso della parola, in un interscambio che da allora ha sempre fatto parte della politica del Gruppo Esso. Per accennare ad un dato tecnico curioso: con l'acciaio impiegato si sarebbero potute costruire 40 mila automobili! In Raffineria vengono realizzati 6 nuovi impianti, inclusi una distillazione atmosferica, 2 reformers catalitici ed 1 desolforatore delle benzine. Completa l'espansione la costruzione l'anno seguente dei depositi di Quiliano e di Arluno. Il "Bollettino Trecatese", molto diffuso e quasi centenario settimanale parrocchiale, dà molto spazio alla cerimonia ufficiale di inaugurazione dei nuovi Impianti: alla presenza di 800 invitati, del Ministro Pastore e gentil consorte, madrina della manifestazione, di Autorità civili e religiose, fa da anfitrione il Presidente della SARPOM ing. Vincenzo Cazzaniga, che accompagna i suoi ospiti nella visita dell'intero complesso. Nel 1966 la SARPOM, alla cui direzione hanno cominciato ad avvicendarsi manager italiani, si attiva per partecipare al mercato dei bitumi e dopo due anni entra in funzione il desolforatore catalitico dei gasoli, importante per i riflessi ambientali. Ma già nel 1969 si rende necessario avviare un successivo ampliamento. Viene quindi dato il via libera per nuovi lavori che portano, nel 1972, ad aumentare la capacità di distillazione a 12 milioni di tonnellate annue ed a completare la rete degli oleodotti. Il 'Bollettino Trecatese", spezzando una lancia a favore della SARPOM, non solo ne sottolinea i progressi nel settore tecnologico, ma, visto che la Raffineria aveva già iniziato a combattere l'inquinamento industriale ancor prima che certi aspetti venissero ufficialmente regolamentati per legge, plaude agli sforzi fatti a tutela dell'ambiente. Le acque della Raffineria passano attraverso una articolata serie di trattamenti per ritornare limpide prima di essere scaricate nel Naviglio Sforzesco. E per dar pratica prova di quanto si afferma, l'allora Sindaco di Trecate, ing. Carlo Antonini, beve direttamente l'acqua reflua proveniente dall'impianto biologico per la depurazione. Nel 1973, primo in Europa, vede la luce il linalog, strumento per l'ispezione interna degli oleodotti e per la tempestiva individuazione di difetti e corrosione negli stessi. Continua nel frattempo l'opera di perfezionamento ed ammodernamento degli impianti senza perdere mai di vista sicurezza e salvaguardia del territorio. Sono questi in Italia gli anni bui della strategia della tensione e delle brigate rosse e, come ricordano quanti operavano all'epoca in Raffineria, la SARPOM era talmente cresciuta d'importanza da ritrovarsi anch'essa al centro di azioni di disturbo da parte di gruppi terroristici, come era capitato ad altri grossi centri industriali. Verso la fine degli anni Settanta, infatti, vi fu un allarme-bomba: una telefonata anonima avvertì che alle tre del pomeriggio sarebbe esploso un ordigno. Non è difficile immaginare l'atmosfera che si respirò in quei momenti: ansia, frenetiche ricerche da parte delle squadre predisposte, sguinzagliate su tutti gli impianti... ma era come cercare un ago in un pagliaio. Man mano che si avvicinava l'ora segnalata le tensioni crescevano, eppure, nonostante la direzione avesse invitato i dipendenti ad allontanarsi volontariamente dagli edifici, nessuno si mosse dal suo posto. In momenti come quello, ed in tutti quelli, per fortuna rari, in cui la sirena emana il temuto segnale d'allarme (per indicare un potenziale pericolo, un principio d'incendio, una situazione di allerta, un incidente), dal neo-assunto al capo della Raffineria, tutti si trovano uniti a fronteggiare l'emergenza.

Anni '80/'90: tempo di nuovi obiettivi

Festeggiati i 30 anni di attività, alla presenza tra gli altri del Ministro dell'Industria Franco Nicolazzi, due sono state le sfide principali affrontate dalla SARPOM negli ultimi due decenni: da una parte la sempre maggiore attenzione del legislatore e dell'opinione pubblica alle tematiche ambientali (ovvia conseguenza di ben noti disastri: ricordiamo solo Seveso, 1976), e dall'altra la crescente informatizzazione di tutti i processi produttivi. In entrambi gli ambiti, ingenti e spesso precursori dei tempi sono stati gli investimenti effettuati dalla Raffineria. Nel 1981 si costruisce la barriera sotterranea per la protezione delle falde acquifere profonde, mentre tra il 1982 ed il 1986 si realizzano nuove espansioni, rispettivamente dell'impianto cracking e dell'impianto di distillazione sottovuoto. Nel 1989 entrano in funzione i nuovi impianti per il recupero dello zolfo, ulteriore passo avanti questo nel rispetto dell'ambiente, e si attiva la moderna gestione di tutti gli impianti sotto un unico computer di processo, avveniristico cervellone all'interno di una sala di controllo di ultima generazione. Nel 1991 ecco sorgere l'impianto di isomerizzazione che fornisce componenti ad alto numero di ottano ed ad alta volatilità per le benzine così da migliorarne la qualità ambientale. L'impianto, la cui realizzazione ha comportato notevoli investimenti, viene inaugurato ufficialmente alla presenza di numerosissime Autorità locali e del Ministro dell'Industria Guido Bodrato. Due anni dopo, in occasione di una nuova espansione dell'impianto di cracking, viene installato un filtro elettrostatico grazie al quale le polveri dell'aria combusta sono ridotte di oltre 10 volte. Nel contempo i sistemi di sicurezza e gestione del processo si fanno sempre più sofisticati, mentre l'attenzione ai probelmi ambientali non si ferma mai: così nel 1996 si attivano altri impianti che contengono ulteriormente le emissioni di anidride solforosa, mentre ad inizio 1998 si avvia l'impianto per la riduzione del contenuto di benzene nelle benzine. Tappa di grande rilievo anche a fine 1998: tocca infatti alla SARPOM, per mezzo di un nuovo e moderno oleodotto, fornire kerosene per aviogetti all'Aeroporto Intercontinentale di Malpensa. Alle soglie del 2000, infine, altro grande investimento con l'avvio della Centrale di Cogenerazione, capace di assicurare la produzione di energia elettrica per l'intera Raffineria e, tramite vettoriamento, anche per il deposito costiero di Quiliano. Oggi, grazie ai depositi satelliti alle porte di Milano, Torino e Savona, l'80% della produzione viene immessa tramite oleodotto direttamente nel cuore del mercato italiano più avanzato. La distribuzione su ferro e su gomma del rimanente 20% prevede 30 pensiline di carico per autobotti e carri cisterna, ubicate all'interno della Raffineria, con la spedizione dei vari prodotti completamente automatizzata e controllata da un computer. In 10 lustri di lavoro la SARPOM, è progressivamente diventata una Raffineria complessa e flessibile, capace di lavorare una vasta gamma di greggi e di trasformare prodotti neri e pesanti, come gli oli combustibili, in prodotti bianchi e leggeri, come benzine e gasoli. Ciò ha aumentato il valore aggiunto delle lavorazioni e via via migliorato la redditività della Raffineria. La SARPOM produce oggi il 7% dei prodotti petroliferi italiani, con una occupazione diretta di quasi 500 adetti ed un indotto di oltre 1500 persone, su una superficie di 2 milioni di metri quadrati ed uno sviluppo di strade interne di 12 Km. Ogni anno vengono mediamente investiti 25 milioni di euro destinati a nuovi progetti ed alla manutenzione degli impianti esterni.

SARPOM e chimica

Nella breve ricostruzione storica della cinquantenaria esistenza della SARPOM, merita un cenno a parte la nascita e lo sviluppo in Raffineria della lavorazione dei solventi idrocarburici. E' il 1966 quando, in pieno boom economico, la Esso costituisce la Società "Esso Chimica" per la commercializzazione di solventi, i cui consumi sono all'epoca in vertiginosa crescita a seguito dell'espansione di importanti settori industriali del Paese: vernici, adesivi, sgrassaggio industriale, petrolchimica, prodotti per l'agricoltura, inchiostri, lavorazione dei metalli, farmaceutica ecc. Dopo un periodo di iniziale importazione dei prodotti dal nord Europa, appare chiaro che un impianto di produzione locale, integrato in una Raffineria già di per sé efficiente ed in posizione assolutamente strategica nel nord Italia, avrebbe consentito un significativo miglioramento del servizio reso alla sempre maggiore clientela. Ecco quindi nascere in SARPOM nel 1976 l'impianto per la produzione di solventi idrocarburici, che segna l'ingresso della Raffineria nel settore chimico, 20.000 tonnellate/anno e 5 tipi di prodotti la prima capacità dell'impianto, poi una continua e costante crescita delle sinergie con la Raffineria fino ad arrivare alle attuali 150.000 tonnellate annue e ben 14 diversi prodotti. In questo arco di tempo l'impianto solventi ha subito due grandi ampliamenti, riuscendo a seguire la continua evoluzione di un mercato molto sofisticato che esige sempre più elevati standard di sicurezza e di attenzione ambientale. E non è certo solo un caso che il primo considerevole investimento effettuato alla SARPOM dopo il fatidico giro di boa del nuovo secolo abbia riguardato proprio l'unità solventi: la realizzazione del progetto denominato "Med 2000" ha portato l'impianto di Trecate ad uscire dalla dimensione nazionale ed a porsi come possibile punto di rifornimento per una vastissima area geografica che comprende Svizzera, Austria, Francia, Spagna, Grecia, ex- Jugoslavia ed Europa dell'Est. Attraverso il continuo utilizzo di tecnologie ed apparecchiature all'avanguardia nel settore, l'impianto solventi in SARPOM marcia perciò verso un futuro di ulteriore crescita rappresentata dai mercati in via di sviluppo e dai nuovi prodotti già allo studio.

 

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