Parliamo di dialetto trecatese?
Parluma da’ dialèt da Tracà?
Stiamo uno di fronte all’altro, Claudia, Simone ed io, come vecchi amici, ma è evidente un certo imbarazzo. La distanza generazionale ci frena: come cominciare? Il progetto sul dialetto trecatese interessa tutti noi, ma, come spesso succede in questi casi, entrare con disinvoltura in argomento non è facile. Ci prova Claudia, gli occhi azzurri fissi su di me:” Prof., una domanda…”.
La blocco subito con un piglio che ricorda i banchi di scuola:
“No, no, prof. no, solo Gian Piera o Gian Pi se preferite, la prof. è andata in pensione. Diamoci del tu, perché con voi mi piacerebbe impostare un rapporto più amichevole, se vogliamo realizzare insieme quel che ci proponiamo”.
Simone, mentre si accarezza la barba nera che gli copre le giovani gote e che dovrebbe dargli un’aria più seriosa, annuisce soddisfatto.
Claudia interviene rassicurata, ma per il momento usa con titubanza il tu, evitando annessi e connessi e con tono professionale dà inizio all’intervista. Abbiamo deciso di procedere così, nella speranza che funzionerà e che potremo coinvolgere anche altri in questo dialogo virtuale.
“Da cosa nasce in te l’interesse per il dialetto trecatese?”.
“Forse è la volta buona che riesco ad esprimere tutto quel che ho dentro e che ho trattenuto per tutti questi anni” – penso fra me e me. E dò la stura ai miei pensieri.
“Il mio interesse per il nostro dialetto nasce da tanti affetti, veri e propri moti del cuore. Sono nata a Trecate da trecatesi doc, ho sempre vissuto in questo paese, ora diventato città. Ho sognato anch’io di andarmene da qui negli anni irrequieti dell’adolescenza, ma ora che sono in età matura, quando mi allontano da Trecate, vi ritorno sempre più volentieri, perché il mio affetto per questo luogo cresce ogni giorno di più: al ritorno da un viaggio, mi piace riconoscere il territorio di Trecate che si avvicina, i suoi colori, le acque , le piante, il campanile e la cupola che si stagliano all’orizzonte. Sentimenti comuni a molti, io credo. Mi sento orgogliosa di essere trecatese e mi sono convinta che il dialetto non è certo un’espressione secondaria della nostra cultura, anzi. Ma quel che più mi attira verso il dialetto è un senso di privazione che mi spinge a ricercarlo , a studiarlo, a ricostruirlo.
Senso di privazione? Perché? Interviene Simone, precedendo Claudia.
“Perché il dialetto mi fu tolto, difatti lo parlo male e sono molto cauta nell’avviare un discorso in dialetto. Quando io ero bambina negli anni Cinquanta, il dialetto era ancora parlato diffusamente nelle case trecatesi, alcuni lo parlavano nel modo più schietto e autentico spitascià, ed era lo strumento comunicativo più consueto anche tra i bambini, specialmente quelli che giocavano e si ritrovavano per le strade e nei cortili. Io non ho goduto di queste piccole gioie. Certo ne ho avute altre e forse per questo sono stata anche invidiata. Una casa unifamiliare che si affacciava su un bel giardino dove si giocava senza incorrere in pericoli, la nonna che leggeva e che raccontava, la mamma che era casalinga e non era costretta al lavoro in fabbrica, un padre attento alla nostra educazione e fornito di una certa cultura… Tutto questo faceva già intravedere la meta futura, la scuola, l’istruzione e la conseguente necessità di lasciare indietro gli aspetti più retrivi di Trecate: sul piano culturale e umano la mentalità chiusa e gretta, il pettegolezzo gratuito, la cura esclusiva per ciò che era conveniente solo per se stessi e sul piano culturale il dialetto. I miei in casa lo parlavano, ma noi, mia sorella ed io , non potevamo farlo e chi si rivolgeva a noi, parenti, amici, lo faceva solo in italiano. Oggi, fidando nella prontezza mentale del bambino, si farebbe il contrario: più stimoli cognitivi arrivano, più il cervello si apre ed impara. Invece, a quei tempi quello sembrava il modo migliore per avviarci alla scuola ed evitarci difficoltà espressive nella lingua italiana. Infatti il metodo si rivelò buono solo in parte: imparammo l’italiano, ma era quello che gli adulti meno colti adattavano dal dialetto (tira giù la tapparella, invece di chiudere o far scendere la tapparella; far da mangiare invece di cucinare – vi fornisco solo questi pochi esempi).
Il dialetto lo capivo ma se osavo parlarlo, cosa che prima o poi feci come succede rispetto a tutte le proibizioni, venivo subito redarguita:”Parla in italiano! Il dialetto non lo parli bene, con la corretta intonazione della voce, taci perché fai ridere”. Il divieto di parlare il dialetto valeva anche per altri bambini che la famiglia voleva avviare agli studi e a un futuro lavorativo meno faticoso di quello dei padri. In quegli anni, l’Italia intera cambiava aspetto, usciva dalla civiltà contadina e si avviava verso la civiltà industriale. La città prevaleva sulla campagna. La cultura era un’esigenza fondamentale per la nazione: i dialetti venivano messi all’angolo e la scelta sembrava giusta. La scuola stessa era in una fase di transizione: da selettiva quale era stata nei decenni precedenti si avviava a diventare scuola di massa. Queste ragioni socio-culturali spiegano la graduale ed inevitabile sconfitta dei dialetti”.
“Questi fatti spiegano perché noi non parliamo il dialetto trecatese?”
“E perché i bambini di oggi nemmeno lo capiscono?” Le voci di Claudia e di Simone si sovrappongono l’una all’altra. Annuisco. Poi continuo:
“Per anni, mentre completavo gli studi e iniziavo la mia attività professionale, non sentii la mancanza del dialetto che non mi serviva, ma mi accorsi presto che il mio italiano era usato in maniera “doppia”, perché nella conversazione volutamente ne abbassavo il registro, mentre mantenevo il registro alto solo per lo scritto. Mi pareva che i compagni, le amiche , gli adulti che conoscevano e parlavano anche il dialetto facessero il contrario, così ascoltavo da loro un italiano persino forbito.. Lo stacco tra scritto e parlato mi fece sentire per la prima volta il senso di privazione di cui ho parlato poc’anzi, ma ho fortemente sentito questa dicotomia quando intorno ai primi anni Ottanta mi sono avvicinata all’Associazione Trecatese per la storia e la cultura locale, appena costituita. Al suo interno un gruppo di persone intendeva occuparsi di dialetto, io mi sentii attirata da questo ambito e mi accorsi della mia povertà in materia. Fu così che cominciò il graduale arricchimento lessicale a cui fecero seguito lo studio fonetico, l’approfondimento sintattico e le ricerche sul folclore. A queste mete più ambiziose giunsi quando ci accordammo per stendere un libro dedicato al dialetto. Il gruppo originario era formato da Antonio Manfredda a’ Tugnìch a’ frè, dall’avv. Angelo Bolchetti e da me .Troppo pochi. Avvicinai allora Amos Bigogno che a sua volta invitò un suo cugino più anziano, Nino Bigogno. Io coinvolsi alcune signore Ida Villani, che come presidente dell’Associazione ci incoraggiò in ogni modo, l’ineguagliabile Maria Dondi De Vecchi, ara Maria Magióra, Carla Cerina Villa, ara fiòla da’ Cèch Balös, che ci permise di utilizzare il materiale del padre e ci fornì le sue personali ricerche. Infine si unì a noi la prof. Vanna Garzoli. Di altri Trecatesi parlerò più avanti, così come dei contatti che presi con Gruppi Dialettali di paesi limitrofi. Il libro di cui vi ho parlato, fu pubblicato alla fine del 2000, dopo anni di incontri, raccolta di materiale, confronti, discussioni. “Tracà un quaj an fa” è la grammatica del dialetto trecatese, seguita da un’ampia antologia che raccoglie fiabe, proverbi, detti e locuzioni, filastrocche, aspetti dell’antica vita contadina. E’ un’opera nata dal contributo di molti, ma io sono molto orgogliosa di averla coordinata. Come sono contenta e piena di speranze per quanto ci proponiamo di realizzare su questo sito.”
“Vedo che ti senti già pronta ad entrare nel vivo della materia” interloquisce Claudia, mentre prendo fiato.
“ Interrompiamo qui la prima puntata di questo discorso che si annuncia lungo e interessante?” propone Simone
“Sì, e spero che anche voi vi sentiate pronti a seguirmi”.
Parliamo del dialetto trecatese?
Parluma da’ dialèt da Tracà?
Claudia, Simone ed io siamo pronti per la seconda puntata dell’introduzione al dialetto trecatese.
I ragazzi hanno già in mente le loro domande. Lo intuisco dai loro occhi guizzanti e dagli sguardi che si scambiano .Chi comincerà?
Claudia dà il via alla conversazione.
“Ho sentito dire, Gian Piera, che il nostro dialetto deriverebbe dal francese..”
“O addirittura dallo spagnolo” interrompe pronto Simone.
“Devo contraddire entrambi”, dico sorridendo “ E se avrete pazienza, vi racconterò un po’ di storia della lingua. Questa è ancora una parte che potrebbe risultare un po’ “noiosa” per chi vorrebbe parlare subito del trecatese, ma , secondo me, può essere anche interessante e, soprattutto, utile a sgombrare il campo da molti equivoci, se non addirittura da errori. Abbiate quindi pazienza se vi intratterrò su questo argomento”.
“Se non possiamo fare altrimenti…” si guardano sornioni
“Cercherò di non farla lunga, ma non garantisco di riuscirci”.
“E lóra 'nduma” Claudia ed io rimaniamo sbalorditi dall’invito di Simone,in perfetto trecatese. Raduno le idee:
“La maggior parte delle parole del nostro dialetto deriva dal latino o, meglio, dal latino volgare, cioè il latino parlato dal vulgus, il popolo. Ripasso con voi un po’ di storia romana.
I Latini, una popolazione indoeuropea, si stanziarono nel Lazio intorno al 1200 – 1000 a.C. Essi tra il V e il III secolo a. C. conquistarono militarmente e politicamente tutte le genti italiche, Nel 202 a.C., al termine della seconda guerra punica, i Romani ormai dominavano il bacino del Mediterraneo. Quando nel 44 a.C. Cesare venne assassinato, Roma controllava da tempo l’Oriente e si era estesa verso buona parte dell’Europa. La massima estensione dell’impero fu raggiunta nel II sec. d.C. sotto gli Antonini.
A contatto coi popoli sottomessi i Romani dimostrarono una straordinaria capacità di assimilazione e di rielaborazione originale degli elementi culturali e spirituali più congeniali alla loro sensibilità. Elaborata dunque una loro civiltà, i Romani la estesero ai popoli conquistati. La romanizzazione comportò ovviamente l’estensione della lingua latina ai popoli dell’impero. Il latino si impose non per costrizione, ma per il prestigio dei conquistatori. Il latino fu usato come mezzo di comunicazione; fu il segno distintivo della comunità romana e delle nuove genti che ormai si sentivano romane; fu la lingua della cultura, con la quale fu divulgato prima il patrimonio culturale greco-romano, poi quello cristiano.
Eppure la romanizzazione non si effettuò ovunque alla stessa maniera.
Soprattutto in Occidente (cito come esempio la Gallia e la Spagna) la romanizzazione fu profonda e duratura e la lingua latina vi penetrò stabilmente.
Al contrario, il mondo greco-ellenistico, oppose una certa resistenza alla romanizzazione, in quanto il greco non fu mai completamente soppiantato.
L’Africa settentrionale, che pure diede un considerevole apporto alla civiltà latina, a causa delle successive vicende storiche andò perduta per il mondo latino.
In altre province periferiche dell’impero, per esempio i territori tra Reno e Danubio, la romanizzazione fu piuttosto debole.
Se riflettete , vi sarà evidente anche un altro fatto, cioè che, come avviene nell’italiano di oggi, Roma antica vedeva convivere il latino scritto della letteratura e dei documenti ufficiali e il latino volgare, cioè parlato dal popolo, dall’altra, una lingua informale, non “ingessata” da regole di nessun genere.
Tuttavia la lingua latina, che era stata così largamente diffusa, non aveva cancellato completamente la lingua locale, parlata dai popoli che aveva conquistato.
Si era cioè avviato un rapporto di reciproco scambio linguistico tra conquistatori e conquistati. Anzi la lingua dominante che, nel frattempo, andava cancellando la parlata dei popoli vinti, assorbì elementi linguistici di quella parlata che gli studiosi definiscono lingua di substrato.
Si veniva così formando, nella penisola italica, come nelle province, una nuova lingua che era sempre latino, ma che, nel parlato, differiva da zona a zona, perché differente era il sostrato su cui si inseriva la lingua di Roma. Nasceva così un latino regionale.
In ogni caso, possiamo dire che l’impero parlava una sola lingua.
Questa situazione di sostanziale unità linguistica durò fino a quando Roma controllò con mano ferma l’ampio territorio conquistato.
Quando tra il III e il IV secolo d.C., ebbe inizio la disgregazione politica e territoriale dell’impero sotto i colpi delle invasioni barbariche, anche l’unità linguistica venne meno. Mentre il latino scritto, che aveva severe regole lessicali, morfologiche e sintattiche continuava ad esistere come lingua della cultura e, come tale, veniva ancora insegnato nelle scuole, il latino parlato andava incontro ad un destino ben diverso.
Abbiamo già avuto modo di constatare come il latino parlato fosse una lingua più mobile e flessibile, capace di adattarsi alle esigenze dei parlanti.
In seguito alla rottura dell’unità politica e culturale, il latino parlato si evolvette in modo diverso da zona a zona, accentuando quelle caratteristiche locali a cui ho già fatto cenno.
“ Fin qui mi è tutto chiaro –interviene Claudia – Ma come avvenne nel concreto questa evoluzione?”
Prima di tutto riaffiorò con maggior evidenza la lingua di sostrato, e vennero accentuate le differenze fonologiche, morfologiche e sintattiche delle varie parlate locali.
Contemporaneamente nella lingua parlata vennero introdotti nuovi fonemi, nuovi termini, nuove costruzioni sintattiche. I popoli invasori infatti, superata la fase delle distruzioni e delle razzie, si stanziarono stabilmente nei territori conquistati e diedero vita ai regni romano barbarici. Barbari e Latini impararono a convivere fra di loro e sentirono l’esigenza di riportare legalità e stabilità amministrativa nei loro territori. La fusione delle popolazioni romanizzate con quelle barbariche favorì la penetrazione nel latino parlato di elementi della lingua di superstrato, cioè della lingua dei Goti, dei Vandali, dei Longobardi…
Così tra il 600 e 700 d.C., nei territori dove la romanizzazione era stata più vitale (Spagna, Portogallo, Francia, Italia, Romania) si avviò quel lungo processo di trasformazione linguistica del latino parlato che ha dato vita alle lingue neolatine o romanze.
Nelle zone in cui la romanizzazione era stata meno profonda, come per esempio in Gran Bretagna o nell’Europa centrale, il latino scomparve, sostituito dalle lingue anglosassoni.
“.
, Ma in Italia che era la terra dove era nato il latino, avvennero le stesse trasformazioni?”
“Claudia, anche nella nostra penisola avvennero i fenomeni che ho descritto
Il latino volgare che già aveva connotazioni regionali, evolvette di zona in zona in maniera diversa. Le differenze linguistiche si approfondirono a causa della rovina del sistema politico, amministrativo, scolastico romano. La disgregazione del sistema viario, la difficoltà delle comunicazioni, la crisi dei traffici e dei commerci, la precarietà dell’esistenza contribuirono a dividere linguisticamente ampi territori della penisola. Perciò tra il V e l’VIII secolo dal latino parlato nacquero più lingue diverse, i volgari italiani.
Queste lingue ebbero una storia e un’evoluzione autonoma. In breve, come ricordate dalla storia della letteratura italiana, alcune di queste lingue acquisirono col tempo una loro specifica dignità letteraria e diedero vita ai primi testi della letteratura italiana. Il “Cantico delle Creature” (1224) di San Francesco d’Assisi, fu scritto in volgare umbro, “Rosa fresca aulentissima” di Cielo d’Alcamo (1250 ca), in volgare siciliano.
La nascita della letteratura italiana avvenne però più tardi che nel resto d’Europa, a causa del perdurare della tradizione culturale latina.
I volgari italiani furono vere e proprie lingue fino a quando dal XVI secolo in poi, una di queste lingue, il fiorentino, non assurse, per scelta dei letterati di età rinascimentale, al rango di lingua nazionale, riducendo le altre lingue al ruolo di dialetti.
Scrive Marcello Sensini su una nota grammatica italiana: “I dialetti italiani, nati dall’evoluzione del latino parlato, non sono linguaggi rozzi e inferiori, da combattere come deformazioni della vera e unica lingua italiana. Essi sono vere e proprie lingue, hanno una loro struttura grammaticale organica, un loro lessico, una loro storia e hanno naturalmente una loro piena espressività
Decidiamo di concludere a questo punto la nostra conversazione.
“Nella terza puntata vi parlerò ancora in generale del dialetto e poi vorrei ….”
“Non mettere troppa carne al fuoco,Gian Piera” suggerisce il saggio Simone.Gli dò ragione e taccio.
Simone e Claudia mi guardano un po’ stupiti, forse vorrebbero accennare un rimprovero, ma non osano: ecco uno dei vantaggi dell’età matura, poter evitare lavate di capo! So benissimo che me la meriterei: non mi sono fatta più sentire da un bel po’ di tempo… Le feste natalizie, impegni personali, momenti di crisi .Ho molti motivi seri per giustificare il mio silenziocon “La Piazza di Trecate”, ma preferisco tacere e incominciare, quasi con indifferenza:
“ Riprendiamo da dove ci siamo lasciati?”
I ragazzi tacciono .Ne approfitto per introdurre rapidamente (forse un po’ troppo) il nuovo argomento.
“Vi ricorderete che eravamo giunti alla conclusione che i dialetti non sono forme scorrette della lingua comune, semplicemente sono lingue usate diversamente dall’italiano.
E’ evidente a tutti infatti che i dialetti hanno un uso geograficamente limitato, sono cioè parlati in zone circoscritte nello spazio, e hanno un uso sociale ristretto. A questo proposito, mentre l’italiano è usato in tutte le situazioni comunicative, i dialetti oggi sono invece utilizzati solo nell’ambito della vita quotidiana, in famiglia, fra gli amici, talvolta sul lavoro.
Un tempo non era così, essi erano lingua di uso comune. Anzi, alcuni dialetti hanno avuto una funzione culturale significativa grazie ad autori come lo scrittore napoletano G.B. Basile, il commediografo veneziano Goldoni, il poeta milanese Carlo Porta, il romano Giuseppe Gioacchino Belli, e nel Novecento il friulano Pier PaoloPasolini e il triestinoVirgilio Giotti.
I dialetti hanno perso la funzione di lingua di comunicazione in seguito al raggiungimento nel nostro paese dell’unità linguistica, realizzatasi effettivamente solo dopo la seconda guerra mondiale.
Di fronte all’italiano, sotto la pressione della scolarizzazione di massa e della diffusione dei mezzi di comunicazione, in una società radicalmente cambiata, essi hanno subito un progressivo, ineludibile indebolimento che non si è certamente concluso, ma che continua sotto la spinta della globalizzazione, tanto che alcuni studiosi ipotizzano che nel giro di cinquant’anni i dialetti saranno completamente scomparsi. Però io direi di lasciare agli esperti tali profezie.
Personalmente non assumo atteggiamenti nostalgici rimpiangendo i bei tempi andati (che tanto belli non erano) e la espressività del dialetto. Piuttosto prendo atto della situazione e vedo nel dialetto il mezzo attraverso cui si identifica una comunità, a cui sta a cuore mantenere le proprie tradizioni rispetto alla dilagante omologazione linguistica e all’appiattimento culturale dei nostri tempi.
Questo non significa cadere nell’eccesso contrario, auspicando la restaurazione del dialetto oppure anacronistiche celebrazioni di una parlata compresa ormai da pochi.
Ancora una volta è la storia che ci deve guidare: il dialetto è una realtà linguistica che va studiata per quel che è, “come – e cito ancora una frase di Marcello Sensini – testimonianza compiuta e fedele delle genuine radici storiche e culturali delle varie aree linguistiche italiane e, anche, come espressione delle particolari competenze linguistiche di ogni singolo parlante”.
I dialetti italiani sono state suddivise in varie tipologie secondo le zone in cui sono parlate. Il nostro dialetto, secondo i glottologi, appartiene ai dialetti settentrionali. Essi vengono ulteriormente divisi in:
1 Dialetti settentrionali gallo italici o italo romanzi, che conservano tracce del sostrato linguistico celtico e sono parlati in Piemonte, Lombardia Trentino, Liguria, Emilia Romagna.
2 Dialetti settentrionali gallo romanzi, che comprendono l’occitanico o provenzale parlato nelle valli di Cuneo e il franco provenzale parlato da Susa alla Val d’Aosta.
3 Dialetti settentrionali veneti, parlati nel Veneto e nel Friuli Venezia Giulia.
In particolare, se consideriamo il nostro Piemonte, esso dal punto di vista linguistico può essere diviso in due zone.
Una più limitata e collocata a occidente, è caratterizzata da dialetti gallo romanzi; l’altra più ampia e che si estende verso oriente è caratterizzata dai dialetti gallo italici. Però i dialetti propriamente piemontesi si fermano lungo i fiumi Sesia e Scrivia, mentre nei territori al di là di questi due fiumi i dialetti assumono caratteristiche lombarde ed emiliane.
Come i glottologi sono arrivati a questa conclusione? Per comprenderlo, bisogna innanzi tutto precisare che per gli studiosi di linguistica i confini geografici non corrispondono ai confini linguistici. Questi ultimi, in una carta linguistica, sono segnati dalle cosiddette isoglosse, cioè linee immaginarie che uniscono i punti estremi di un’area geografica in cui i glottologi osservano o un medesimo uso linguistico o identici fenomeni linguistici (elementi lessicali, fonetici, morfologici comuni).
Ora, in base alle isoglosse tracciate, si è osservato che i dialetti compresi tra Sesia e Ticino hanno forti attinenze con i dialetti lombardi occidentali, tanto da poter essere considerati l’estrema propaggine verso ovest di quei dialetti. (Ricordo infatti che dal punto di vista linguistico l’Adda divide le parlate lombarde in occidentali e orientali).
Del resto, per lungo tempo questo territorio e, in particolare quello compreso tra Terdoppio e Ticino, fece parte del Ducato di Milano e solo nel 1738, dopo la guerra di successione polacca, la Valsesia, il Lago Maggiore, il Novarese, la Lomellina entrarono a far parte del Regno di Sardegna. Durante l'età napoleonica, il distretto di Novara venne riportato alle dipendenze di Milano e solo dopo la caduta di Napoleone ritornò sotto la stato sabaudo.
La zona compresa tra Terdoppio e Ticino è quindi un'area omogenea per motivi geografici, storico-politici, economici e i dialetti che qui si parlano sono tipici di una zona di confine, di frontiera. Questo fatto, non secondario, attribuisce a tutte queste parlate una connotazione particolare, in quanto tutte presentano attinenze prevalentemente con l'area lombarda, ma anche con l'area piemontese.
Il trecatese è dunque un dialetto gallo italico di frontiera, che presenta caratteristiche comuni con Galliate, Cerano, Romentino, Cameri, Borgomanero e altri centri del Novarese, ma spesso la nostra parlata si avvicina a forme del pavese settentrionale, cioè della Lomellina e del Vigevanese, e presenta forme comuni anche con il piacentino.
Claudia, Simone non voglio stancarvi, perciò concludo rapidamente questo discorso”.
Ho l’impressione che i ragazzi siano sollevati. Quindi riprendo:
“Non mi soffermo nel dettaglio sulle attinenze lombarde e piemontesi del nostro dialetto, che sono le più numerose. Chi fosse interessato può trovare una più ampia trattazione su Tracà un quaj an fa (Conclusioni alla grammatica da pag. 231).
Per quanto concerne la specificità del trecatese, mi limito a citare alcuni esempi fonetici e sintattici.
- Rafforzamento consonantico provocato dall’art. determinativo maschile singolare e da alcune preposizioni articolate: a’ pà, ’nsü' técc. (Fonetica, da pag. 29). Queste parole sono pronunciate come se la prima sillaba fosse doppia, cioè a ppà, a ttécc. Preciserò la volta prossima l’ortografia adottata.
- Tipicamente trecatese è il suono della vocale a turbata da nasale, che si ritrova in vocaboli come ônga, rôna canpôna, tôna.
- Solo trecatese è la forma dell'articolo determinativo femminile non ridotto ara e ridotto ’ra. Vi assicuro che il fatto ha stuzzicato non poco l'intelligenza dei glottologi, finché non abbiamo trovato su uno dei sacri testi , il Rohlfs, per intenderci, un’analoga forma nel dialetto piacentino.
- Un'altra nostra caratteristica, che però condividiamo con Cameri, è lo sviluppo in finale di parola di occlusiva, cioè di c dura, in seguito alla scomparsa dell'originaria uscita in nasale AN, IN ON, UN. Infatti dal latino unum > üch, canem > cöch, vinum> vich.
- Le particelle pronominali vengono posposte ai verbi (ò dijavru gliel'ho detto;) agli avverbi (pòrtalama portami là, vurì béghma vogliatemi bene), ma anche ai sostantivi e agli aggettivi.
- Invece va scomparendo una peculiarità specificamente trecatese, derivante con tutta evidenza dal lombardo, cioè la pronuncia spitascià di alcune vocali che venivano strascicate ed allungate: ara guèra la guerra, ara lüna la luna, a' mè il miele, a' cas la fiaba, ara stòria la storia. Per farmi capire meglio , la e di guèra era pronunciata come se fosse stata doppia, così come le altre vocali toniche (cioè accentate) delle parole che ho citato.”
Per oggi ci fermiamo qui. La prossima volta parleremo della grafia adottata per scrivere il trecatese.
Arrivederci.
Trecate, 25 gennaio 2012
Gian Piera Leone